La pubblicità contiene le uniche verità affidabili di un giornale.
Thomas Jefferson
presidente degli Stati Uniti


Con la pubblicità non dobbiamo vendere al consumatore la bistecca, bensì lo stuzzicante momento in cui la soffriggerà in padella.
Ernest Dichter
psicologo statuintense


Gli ideali di una nazione li capisci dalla sua pubblicità.
Norman Douglas
scrittore inglese


Perchè continuo ad investire in forti campagne pubblicitarie anche adesso che la mia azienda è
diventata il maggior produttore mondiale di chewing gum?
Per lo stesso motivo per cui il pilota di un aereo tiene i motori accesi anche dopo il decollo.
J. Wrigley
industriale statunitense


Deve essere un panorama meraviglioso per chi non sa leggere
(osservando le scritte luminose in Times Square a New York).
G. K. Chesterton
scrittore inglese


Nulla, a parte la zecca, può fare soldi senza pubblicità.
Thomas Babington Macaulay
storico e politico inglese


Anche Dio crede nella pubblicità, infatti ha messo campane in ognuna delle sue chiese.
Sacha Guitry
attore e commediografo francese


Molte cose piccole sono diventate grandi con un appropriato uso della pubblicità.
Mark Twain
scrittore statunitense


Chi smette di fare pubblicità per risparmiare i soldi è come se fermasse l’orologio per risparmiare il tempo.
Henry Ford
industriale statunitense


Quando scrivo un testo pubblicitario non voglio che lo si consideri creativo, ma tanto interessante da far comprare il prodotto.
David Ogilvy
fondatore dell’Agenzia di pubblicità Ogilvy & Mather



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Ecco i primi capitoli del mio nuovo romanzo. Saranno aggiornati i contnuti man mano che verranno scritti.

Inviare le crtiche ed i commenti a l.leone@yatw.it ricordando di indicare il capitolo e ovviamnte il suggerimento.

Grazie a tutti per la collaborazione.

2
Appena sentii il fischio, compresi che era successo qualcosa di grave.
Il medico e il massaggiatore scattarono come fulmini verso il punto del campo, dove l’arbitro si stava sbracciando. Avversari e compagni di squadra circondavano Artur e dalla panchina risultava impossibile avere una visione chiara della situazione, ma dalle mani nei capelli degli astanti la mia supposizione trovò conferma.
Eravamo al 26° del secondo tempo, non potrò mai dimenticarlo, e la mia domenica da spettatore “privilegiato” procedeva tranquilla. La differenza rispetto alle altre era che quella lì, quella del 16 marzo 2012, la stavo vivendo non nel mio solito posto in Tribuna Centrale all’ Estàdio da Luz, ma una trentina di metri più in basso nel cantuccio sinistro della panchina dei Padroni di Casa. Si certo essere il terzo portiere dell’O Glorioso è sempre un onore, ma a 42  anni sei conscio che ormai quello che hai dato hai dato e la fine è sempre più vicina, anzi gli scarpini da appendere al chiodo li hai già slacciati e sfilati.
Ne ho lette tante di metafore sul ritiro di un giocatore eppure se devo dirla tutta quando sei lì che ti alleni, perché un terzo portiere si allena e basta, non ci pensi molto.
  L’esercizio fisico diventa la tua attività, il tuo lavoro, con dei ritmi e dei tempi anomali e nient’altro. Il giorno della partita non lo aspetti più perché per te, quando va bene, è in realtà quello del giorno di rifinitura. E’ lì che sfidi i titolari e vinci o perdi, ma poi sai che non ci sarà la vera gara. E a questa situazione ti ci abitui subito, non appena il Mister ti dice che sei stato acquistato per quel ruolo.
Quando ero più giovane, le esclusioni bruciavano eccome, anche perché il portiere sostituito è un portiere bocciato. Devi cambiare aria, squadra. E ti può dire bene che la nuova società sia migliore oppure scendere di categoria per trovare spazio.
Quale sia il momento preciso in cui il declino e iniziato non è che lo ricordi bene. Ebbi un paio di stagioni da primo portiere nel Vitória Guimarães annate 1994-95 e 1995-96 al quale arrivai dopo lunga trafila e una grinta che suppliva alle mie carenze tecniche e più che altro grazie alla sventatezza. I critici e i giornalisti mi definivano fortissimo nelle uscite, ma più che normale fra i pali. Avevano ragione. Dentro di me bruciava un’anima diversa, un’anima che non poteva aspettare, ma desiderava attaccare l’avversario prima che tirasse. Braccarlo, annullarlo. Il pallone era mio e basta, un po’ come quando da bambini ci si arrabbia e si porta via la palla con cui si gioca perché qualcuno o qualcosa ti ha fasto stizzire.
Da piccolo anch’io sognavo il numero dieci sulle spalle, come tutti. Ero più grande di statura dei miei coetanei e questo mi avvantaggiava sia nelle partitelle in cortile ad Arrentela, dove sono nato, che nelle prime partite vere nei pulcini del Seixal.
  E’ un posto strano Arrentela, legato all’oceano Atlantico che ha scavato la terra Lusitana per trovarlo, insinuandosi nella sua anima e quell’oceano cattura anche te. Un posto di musicisti e pescatori, gente tranquilla come lo eravamo noi.
Mio padre faceva il medico in tutta Setùbal e mamma la casalinga. Mio fratello minore Jorge ed io passavamo tutti il giorno in cortile a Rua Boa Hora. Noi abitavamo al primo piano del numero 49 con una grande finestra ad angolo che ci permetteva di tenere il cortile sotto controllo. Appena vedevamo gli amici, scappavamo via tra le grida spazientite di mamma che aveva perennemente il fazzoletto in testa e altrettanto perennemente era intenta a pulire qualcosa. Un’infanzia comune a molti con un papà fissato per la salute e per lo sport e una mamma sempre troppo apprensiva.
Le estati le passavamo sulla spiaggia di Arrentela a sfidare i ragazzi di Amora, dall’altra parte della foce, che venivano in spiaggia da noi perché da noi c’era più spazio e già nei primi anni 70 Avenida Repùblica era un “lungomare” con i fiocchi. A noi sinceramente non interessava l’importante era avere uno spazio per giocare: 5 contro 5, 7 contro 7, 11 contro 11. Queste erano le uniche regole, il resto lo si inventava al momento: dalle porte alle linee di delimitazione di un campo ogni volta diverso e per questo unico.
  Dall’autunno alla primavera ci si allenava nel cortile sotto casa nostra e l’estate si raccoglievano i frutti dell’allenamento. Forse proprio nella prima infanzia imparai la cultura dell’allenamento quotidiano. Perché non è che si giocasse solo, ma si provavano anche tiri con il piede debole, le punizioni e i rigori. Ognuno a turno proponeva un esercizio.
Anche noi, come molti altri bambini abbiamo avuto i nostri grattacapi. Qualche specchietto rotto che mio padre era costretto a ricomprare, ginocchia distrutte, che sempre papà rattoppava con una pazienza infinita e qualche rissa che finiva con doppia punizione fisica e morale. Tutto questo mortificava mia madre perché lei era riconosciuta come la moglie del Dottore, una persona istruita e educata. I suoi figli non potevano commettere birichinate. Ma a parte queste piccolezze sia mio fratello Jeorge che io eravamo dei bravi bambini. Tranquilli a scuola, che a Jeorge piaceva più di me, e ubbidienti in genere. Un po’ vivaci, ma niente di più.
A 8 anni papà mi iscrisse nella squadra del Seixal, una società piccola ma ben organizzata. Jorge mi raggiunse l’anno successivo. Il primo anno facemmo tanto gioco libero. Il nostro allenatore, Luis Valentim un signorone pelato e bonaccione, ci lasciava giocare senza molte regole che non fossero quelle basilari del campo. Fu bravissimo perché così ci si appassiona di più al gioco e quando poi si incomincia ad inserire un po’ di tattica il bambino apprende più serenamente i movimenti.
L’anno seguente facemmo il nostro primo campionato e quando indossai per la prima volta la maglia a strisce rosse e blu, mi sentii un vero giocatore e giurai eterna fedeltà al club con lo stemma dai due remi incrociati.
Tutto quello che apprendevamo dall’allenatore e tutti gli esercizi svolti durante gli allenamenti, ovviamente, li ripetevamo poi con i nostri amici nel cortile sotto casa. In pratica vivevamo di calcio e Jeorge il pallone se lo portava anche a letto.
Papà spese una fortuna in scarpe e parastinchi, ma il 09/09/1979 feci il mio esordio nello Estadio Do Bravo contro il Montemor vincendo per 1-0. Il gol partita lo fece Vitor Martinho uno dei nostri amici del cortile. Era il più basso e ovviamente il più veloce. Un viso da monello, sempre allegro che non potevi non trovare simpatico e due occhi vispi che guardavano in tutte le direzioni senza fermarsi mai.
Avevamo tutti 9-10 anni e stavamo imparando a muoverci e a sviluppare le nostre caratteristiche. Io giocavo a centro campo e dopo quattro partite il Mister mi spostò da mezza punta. Avevo realizzato il mio sogno: la maglia numero 10.
Non ci dormivo la notte. Ero arrivato dove volevo ed io quella maglia non avevo nessuna intenzione di lasciarla a nessuno.
Solitamente era mamma ad accompagnarci agli allenamenti. Uscivamo da casa alle 14 e con qualsiasi situazione atmosferica camminavamo per una buona mezz’ora  fino a Quinta de Trinidade dove era il campo di allenamento del Seixal.
Julia, santa donna, aspettava pazientemente che mio fratello ed io finissimo gli allenamenti e poi ripercorrevamo il tragitto a ritroso fino a casa fermandoci a mangiare il fantastico toast di Braima un chioschetto che si trovava proprio a metà strada tra il campo di allenamento e casa nostra.
Gli allenamenti si svolgevano tre volte a settimana alle 15 e io li adoravo, forse più della partita. Perché agli allenamenti si parlava, si scherzava e ci si sentiva più uniti.
Se devo proprio trovare una pecca nel Mister Valentim è quella di non essere stato in grado di trasmettere l’idea che quello che si faceva era un gioco e tale doveva rimanere anche in una gara ufficiale. La goliardia degli allenamenti la domenica magicamente spariva.
Comunque le cose andavano bene, cominciammo ad avere una certa continuità di risultati finché non incontrammo il Benfica, l’artefice del mio destino.
In una sola partita io persi tutto: dalla mia maglia al mio posto in squadra e anche le mie fragili convinzioni di bambino.
Non fu tanto per il blasone dell’avversario, ma per il giocatore che indossava il mio stesso numero di maglia: Manuel Rui Costa. Aveva due anni in meno di me ed era imprendibile. Un furetto con dei lunghi capelli neri, magro come un chiodo e con la fascia di capitano?!? Il più piccolo di tutti, ma il più grande in assoluto. L’avversario più forte che io abbia mai incontrato e che non ho mai avuto occasione di avere come compagno di squadra. Ce ne fece 5 (manita) in 15 minuti. Una cosa mai vista. La palla danzava fra i suoi piedi, poi spariva per riapparire in fondo alla rete. Era elegante e veloce già a quell’età. Alla fine del primo tempo il Mister che ci vedeva tutti abbattuti, per la prima e unica volta ci ricordò che si trattava di un gioco e che dovevamo solo pensare a divertirci. Ma come puoi divertirti se la palla non la tocchi mai? Non si giocava ad armi pari. Io ero furioso e ripresa la partita feci subito un brutto fallo. Il Mister stava per sostituirmi per punire il mio comportamento, solo che Rui Costa recuperò il pallone e lanciò un suo compagno in contropiede. Il nostro portiere, Ricardo Freitas, un bambino corpulento e goffo, franò addosso all’attaccante facendosi espellere.
Non avevamo un altro portiere e il Mister scelse me perché ero il più alto.
Misi la maglia numero 1, abbandonando lì lo zero per sempre e con lui i miei sogni di gloria. Erano le 12:38 del 25/11/1979, l’inizio della mia carriera da portiere e l’inizio della mia solitudine.
Rui Costa mise il pallone sul dischetto con tutta la calma che può avere un bambino di sette anni. Guardò solo l’arbitro che soffiava nel fischietto. Quando calciò io ero ormai a due metri da lui e il pallone mi sbatté sul petto. L’arbitro fischiò nuovamente scandalizzato; ero scattato incontro alla palla non sapendo come si dovesse comportare un portiere su di un calcio di rigore. Fui catechizzato mentre i giocatori avversari e i miei compagni ridevano come matti.
Odiavo stare in porta, io volevo segnare. Guardai tutti con disprezzo e mi sentii abbandonato anche dai miei genitori sugli spalti. Ma quello che odiavo più di tutti era quel moccioso magro che mi guardava con superiorità. In quel momento per me il nemico. Era colpa sua se mi trovavo in quella situazione, sua e di nessun altro.
Il rigore fu ripetuto e questa volta rimasi fermo sulla riga di porta come mi aveva detto l’arbitro. Rui Costa andò deciso a incrociare alla sua sinistra.
In quell’istante, in quel preciso istante, non so spiegare come né perché qualcosa dentro di me scattò. Vedevo il giocatore come se si muovesse al rallentatore e questo mi permise di capire da che parte avrebbe tirato. Il susseguente tuffo alla mia destra  venne naturale e fluido come se lo avessi sempre fatto e come se il gesto facesse da sempre parte di me. Deviai il pallone che era stato scagliato a filo d’erba e sentii urlare tutti i miei compagni come se avessimo vinto invece di essere sotto di ben 7 goal.
Mi abbracciarono tutti ed io ricambiai gli abbracci eppure quel senso di vuoto e di abbandono non andò via, rimase in fondo allo stomaco per sempre e mi diede la dimensione giusta del significato di “estremo” difensore.
Da quel giorno la mia vita calcistica cambiò. Con i compagni correvo solamente poi mi toccava un allenamento specifico. Avevo scalzato Ricardo. Ora il portiere titolare ero io. E in porta finii anche nelle partite nel cortile e in quelle al mare. Paravo e paravo bene. Tutti mi volevano ma poi, una volta scelto, finivo tra i “pali” e nessuno parlava più con me.
A 13 anni passai al Setùbal ed iniziai la mia carriera vera e propria: tutte le giovanili e la prima squadra. Andai via di casa perché viaggiare tutti i giorni, per due, ore mi stancava e non mi faceva rendere a scuola. Mi affidai al Club per tutto e il mio senso di solitudine aumentò fino a farmi smettere di parlare. Mamma e papà venivano a trovarmi ogni giorno e il mercoledì mi riportavano a casa. Ricordo i viaggi in macchina il giovedì mattina alle 6 con il sole che si svegliava più tardi di noi e il mio viso incollato al finestrino pieno di lacrime. Papà mi ripeteva spesso, per non dire sempre che se avevo voglia di smettere potevo farlo, nessuno mi obbligava a giocare. Ma io piangevo e scuotevo la testa. Dentro di me volevo vincere, volevo rendere orgogliosi i miei genitori e mio fratello e tutti i nostri compagni di cortile.
Alle volte non si fanno delle scelte o delle azioni solo per se stessi e non credo che ci sia niente come il calcio che spiega questa cosa. Ogni squadra rappresenta i sogni di milioni di tifosi. Io rappresentavo i sogni dei miei amici, quelli di mio fratello e ovviamente anche i miei.
Passai in prima squadra nella stagione 87-88 con 3 presenze in Primeira Divisão, ma zero goal al passivo. In primavera andavamo fortissimo tanto che fui convocato in nazionale  under 21, forse la più forte under che il Portogallo abbia mai avuto con Figo, Rui Costa, João V. Pinto e altri. Vinse, infatti, il mondiale under 20 battendo il Brasile. Tutte e quattro le volte che giocai Manuel non c’era. Evidentemente era destino.
Comunque negli allenamenti sfogavo tutta la mia rabbia per la solitudine e questo mi faceva guadagnare punti con gli allenatori. Ci mettevo tutto me stesso e in gara poi ogni cosa veniva più semplice. Paradossalmente la tensione era minore la domenica che durante la settimana.
Nel 90-91 passai titolare. Il numero 1 sulle spalle. Diventai il beniamino dei tifosi perché giovane e del luogo. Ero nato lì ero vissuto lì. Io ero l’estremo difensore dei colori biancoverde: “La vittoria sarà nostra”! Il motto della squadra cantato a squarciagola dai tifosi all’ Estádio do Bonfim il 16 settembre 1990 fu qualcosa di unico e forse irripetibile.
0-0 feci due parate su Chico Faria e una spettacolare su colpo di testa di Menad. Ricevetti i complimenti da tutti, allenatore e compagni. Una grande giornata. Festeggiai con la mia famiglia e una partita in cortile con i vecchi amici. Semplicità e felicità.
Quella stagione però qualcosa non andò per il verso giusto. Alternavamo risultati esaltanti come la vittoria contro il Benfica in casa per 2-0 (Rui Costa era assente per squalifica) a delle trasferte disastrose come quella con il Chaves dove eravamo in vantaggio per 0-2, ma poi presi due goal da principiante. Yekini rimise le cose nella giusta carreggiata e negli ultimi dieci minuti successe il disastro: Manuel Correia fece un cross lento dalla sinistra, io uscii in presa, ma un avversario mi ostacolò leggermente e mancai completamente il pallone, che comunque era di una lentezza impressionante.
  Appena a terra mi voltai di scatto e mi tuffai sicuro di prendere la palla anche nella selva di gambe ma Quim, soprannome di Joaquim Manuel Aguiar Serafim,  un ragazzo che aveva fatto la mia stessa gavetta, fu più lesto, però sbucciò il pallone nel tentativo di rinviare e Slavkov, punta bulgara del Chaves, la sfiorò appena quel tanto che bastò per metterla dentro. Al 90° fu dato un calcio di rigore per fallo di mano in area di Jorge Ferreira ed io non lo vidi nemmeno: Gilberto Gomes tirò una saetta centrale a mezz’aria che fortunatamente evitai tuffandomi. Mi avrebbe sicuramente fatto molto male se avessi provato a pararla.
La partita successiva Jorge Martin mi soffiò il posto e lo tenne per tutta la stagione. Non giocai più. Quell’anno poi la sfortuna volle che la lega avesse deciso di ridurre la Primeira Divisão da venti a diciotto squadre, retrocedemmo quindi anche essendo arrivati diciassettesimi.
Mi feci le ossa nella Liga de Honra e impiegammo ben tre stagioni per tornare nella Primera, ma a quel punto il Club decise di cedermi. Avevo 24 anni era il mio momento. Volevo giocare in Primera e il Vitória Guimarães me ne diede la possibilità.
Ora vorrei sfatare un mito sui calciatori professionisti che spesso e volentieri sono definiti mercenari. Un professionista qualsiasi: un ingegnere, un medico, un avvocato, un manager non sono criticati mai se scelgono di lavorare dove vengono più pagati e soprattutto dove si sentono più valorizzati. Per i calciatori o qualsiasi altro atleta professionista non è così. Se uno lascia la squadra dove milita, per andare da un’altra parte, allora tradisce. Il ragionamento è questo, elementare e logico: io tifo per una squadra e non la cambierò mai finché muoio, tu giocatore che difendi i colori della mia fede ovviamente devi a tua volta essere tifoso della squadra per cui giochi, quindi nella mia mente tu non cambierai mai, come me tifoso, il tuo amore per questa squadra e quindi mai la lascerai. Se lo fai, sei un traditore. Sillogismo perfetto. Poi, siccome per il tifoso la propria squadra è sempre la migliore, quando il giocatore arriva, è come se un peccatore avesse trovato finalmente la retta via. Il passato è passato adesso sei nel posto giusto, qui. Noi, insieme, raggiungeremo la gloria.
Beh è un punto di vista condivisibile. La differenza tra un giocatore e un qualsiasi altro professionista, che sicuramente fa un lavoro più utile, è che noi lavoriamo con i sogni delle persone, sogni particolari che accomunano grandi e piccini, generazioni diverse e ceti sociali diversi, anche colori e razze diverse e questo tipo di sogni è più delicato di altri.
Comunque mi fece molto ma molto male andare via da Setúbal. Mi sentivo anch’io un traditore. Con la mia squadra sarei voluto arrivare in cima al mondo, ma sapevo che non era così e siccome il mio sogno era quello e, come detto prima, uno non gioca mai solo per se stessi, io avevo anche sogni di altri da realizzare e quindi scelsi il Vitória portando così con me almeno una parte del nome del mio vecchio Club.
Mi trasferii lontano dal mare per la prima volta nella mia vita e il mio senso di solitudine divenne la mia sfida. Mi allenavo come un ossesso per combatterlo e i risultati si vedevano. Fu un’annata bellissima. Avevamo una squadra competitiva con Gilmar che era il nostro faro in attacco, Pedro Barbosa e Kupresanin al centrocampo Jose Carlos in difesa ed io José Henrique in porta. Arrivammo quarti e andammo in Uefa. Unico neo per me fu proprio la sconfitta il 12 marzo 1995 contro la mia ex squadra ovviamente in casa loro. Una delle pochissime vittorie di quella stagione dove infatti retrocedette. 1-0 secco.  Al 34° del primo tempo Bruno Ribeiro, un esordiente di diciannove anni, fece un tiro alla Del Piero con due miei compagni che cercavano di ostacolarlo, ma che, allo stesso tempo, mi impedirono di vedere il tiro. Così il pallone sbucò all’improvviso con quella traiettoria assassina che fa esultare il pubblico, ma che brucia tanto l’orgoglio di un portiere. Fui fischiato per 90 minuti. Ce la mettemmo tutta, ma fu inutile. Il destino aveva scritto altro. I miei vecchi amici mi vennero a trovare nel pomeriggio nella casa dei miei genitori, vedevo però che nei loro sorrisi qualcosa si era incrinato. Non c’era più la complicità di un tempo e non solo per l’età che non era più quella fanciullesca né per le preoccupazioni o le vite diverse di ognuno, ma proprio per quel senso di tradimento che si era instaurato anche in loro. Solo mio fratello Jeorge riusciva a capirmi. Lui il calcio lo aveva lasciato. Andava all’università e si sarebbe laureato in Economia. Fu proprio in quel giorno che gli proposi di diventare il mio agente, ma lui rifiutò, adesso dico, saggiamente. Lì per lì non lo capii.
La stagione successiva ci ripetemmo ma arrivammo quinti a due punti dal Braga. Io ormai cominciavo a pensare che gliel’avremmo potuta fare a vincere il titolo. Con un pizzico d’impegno in più da parte di tutti ce la avremmo fatta. Arrivò come allenatore Jaime Paceco proprio il mio ex compagno di squadra ai tempi del Setúbal. Il gioco che proponeva era innovativo. Un 3-5-2 spinto che dava i suoi frutti se tutti stavamo bene. Solo che il mio ex compagno non mi vedeva come portiere. Mi fece fare due partite in campionato e tre in coppa nazionale e poi più nulla. Al mio posto giocava Neno che avevamo preso l’anno prima dal Benfica. Quell’anno persi la sfida con il mio senso di solitudine. Non so perché ma cominciai a vedere gli allenamenti come routine e non più come un campo di battaglia. La cosa strana però è che non sentivo nulla nelle esclusioni puntuali di ogni partita. Niente. Mi accomodavo in panchina e ne uscivo a fine gara. Zitto senza protestare mai. D'altronde non è che l’allenatore mi avesse mai detto nulla. E così mi presi quel ruolo. Scesi il gradino a soli 27 anni e non lo risalii più. Ero visto ormai come secondo e basta.
Fui ceduto al Braga, dove rimasi tre stagioni con 7 presenze in tutto. Poi al Salguerios: due stagioni 5 presenze, al Gil Vicente: tre stagioni 10 presenze; Penafiel: tre stagioni 4 presenze e qui scesi un ulteriore gradino diventando il terzo portiere; Estrela Amadora: tre stagioni 0 presenze. Poi accadde una cosa strana. Mi chiamò mio fratello che in fondo in fondo del suo no di quindici anni prima se ne era infischiato e faceva di tutto per farmi da procuratore, e mi disse che il Benfica stava cercando un giocatore di esperienza per allenare il loro promettente portiere della Primavera, Bruno Marela. Gli serviva una chioccia per un moccioso. Storsi il naso, ma dopo pensai che in fondo chiudere la carriera al Benfica non era poi male e magari si poteva prospettare una ipotesi di lavoro per il futuro. Così accettai e divenni il terzo portiere della squadra più blasonata del Portogallo e una delle più importanti d’Europa. Entrai in un altro mondo. E i primi test furono positivi.
Devo ammettere che il ragazzino era in gamba. Agile, snello e con pochi grilli per la testa. Ci allenavamo insieme e ritrovai entusiasmo nell’esercizio e nell’applicazione al lavoro. Lo incoraggiavo e lo spronavo e qualche volta lo sfidavo a fare meglio del sottoscritto a parare rigori o tiri da fuori area. La cosa che mi aveva colpito e in qualche modo legato a Bruno era il senso di solitudine tanto simile al mio che vedevo nei suoi occhi.
Quindi, come detto, la domenica o nelle partite di Champion’s mi mettevo comodamente seduto in tribuna a tifare le Águias  e a gustarmi i voli dell’Aquila Victoria prima delle partite casalinghe. Tutto fino a quel 16 marzo 2012 ore 16:25. Artur esce su un cross di Javier Balboa centrocampista del Beira Mar che ci sta battendo 0-1.
Douglas De Oliveira, la punta brasiliana del Beira, va per colpire di testa ma centra il cranio del nostro numero uno. Entrambi cadono a terra, Oliveria si rialza Artur no. Trauma cranico aggravato da lesione dirà poi il referto medico. Fatto ci sta che il ragazzo rimane svenuto a terra per 7 lunghissimi minuti poi viene portato fuori in barella fra gli applausi anche del sottoscritto che ancora non si è reso conto che adesso tocca a lui, dopo quindici anni di assenza tocca a lui. Il giovane Marela soffre d’influenza e questo spiega il mio posto in panchina. Ho la maglia 42, la mia età, e mi accingo ad entrare in campo. -Artur sta bene- penso. - Sbrigo questa cosa e gli lascio il suo posto. In fondo sono meno di trenta minuti da giocare-. 
La giornata è bella il sole sta cominciando a tramontare e si sente anche l’odore del mare.
Arrivo tra i pali e tocco il pallone per sistemarlo sul punto di ripresa del gioco. Mi giro verso la curva e saluto i tifosi che forse neanche sanno il mio nome. Faccio un respiro profondo respirando a pieni polmoni il profumo dell’erba, l’arbitro fischia. Vedo Javier Garcia lasciato solo sulla destra e calcio verso di lui. E’ proprio solo. Stoppa la palla sulla tre quarti, si accentra fa un triangolo con Saviola e calcia. Goal 1-1.
  M’inginocchio stanco come se avessi corso io per novanta minuti e credetemi piango.
  Non mi abbraccia nessuno, nessuno mi fa le feste o mi da il cinque. Sono solo. La mia solitudine è tornata. Cinque munti dopo Saviola raddoppia riprendendo una respinta del portiere dopo un tiro di Gaitan. Al 42° Luisao stende Moreira senza complimenti a dieci centimetri da me. Rigore sacrosanto ed io mi sento ancora più solo e per questo più forte. Sul dischetto va lo stesso Moreira che adesso incredibilmente assomiglia a quel ragazzino magro con i capelli lunghi e la fascia di capitano che ora, trentatré anni dopo, è il mio Direttore Sportivo. Come quella volta i sui movimenti sono al rallentatore. Lo capisco subito che tirerà alla mia sinistra, angolato e rasoterra. Mi butto in anticipo e lo blocco, mi alzo di scatto, senza neanche godermi quel momento di gloria e rilancio verso Pablo Aimar, è un contropiede fulmineo con tre passaggi intrecciati,  Aimar – Witsel – Nolito, tiro dal vertice destro dell’area piccola: Goal 3-1. Risalgo i gradini tutti in una volta. Per il resto della stagione sono il portiere titolare del Benfica. A 42 anni vinco il mio primo campionato. A 42 anni realizzo i sogni di tutti.