La pubblicità contiene le uniche verità affidabili di un giornale.
Thomas Jefferson
presidente degli Stati Uniti


Con la pubblicità non dobbiamo vendere al consumatore la bistecca, bensì lo stuzzicante momento in cui la soffriggerà in padella.
Ernest Dichter
psicologo statuintense


Gli ideali di una nazione li capisci dalla sua pubblicità.
Norman Douglas
scrittore inglese


Perchè continuo ad investire in forti campagne pubblicitarie anche adesso che la mia azienda è
diventata il maggior produttore mondiale di chewing gum?
Per lo stesso motivo per cui il pilota di un aereo tiene i motori accesi anche dopo il decollo.
J. Wrigley
industriale statunitense


Deve essere un panorama meraviglioso per chi non sa leggere
(osservando le scritte luminose in Times Square a New York).
G. K. Chesterton
scrittore inglese


Nulla, a parte la zecca, può fare soldi senza pubblicità.
Thomas Babington Macaulay
storico e politico inglese


Anche Dio crede nella pubblicità, infatti ha messo campane in ognuna delle sue chiese.
Sacha Guitry
attore e commediografo francese


Molte cose piccole sono diventate grandi con un appropriato uso della pubblicità.
Mark Twain
scrittore statunitense


Chi smette di fare pubblicità per risparmiare i soldi è come se fermasse l’orologio per risparmiare il tempo.
Henry Ford
industriale statunitense


Quando scrivo un testo pubblicitario non voglio che lo si consideri creativo, ma tanto interessante da far comprare il prodotto.
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Ecco i primi capitoli del mio nuovo romanzo. Saranno aggiornati i contnuti man mano che verranno scritti.

Inviare le crtiche ed i commenti a l.leone@yatw.it ricordando di indicare il capitolo e ovviamnte il suggerimento.

Grazie a tutti per la collaborazione.

Quando è che si comincia a fare sul serio? Quando è che smetti di giocare? Sembrano le classiche domande che una mamma fa ad un figlio che all’apparenza non vuole crescere, che non vuole iniziare a prendersi delle responsabilità e credetemi calzano perfettamente con la vita di un calciatore. Non è che uno giocando a calcio di responsabilità non ne abbia, ma sono diverse, sono pesanti, ma diverse. Queste sicuramente serviranno da allenamento per quelle della vita vera, ma sono di un altro tipo. Ci tengo ancora a sottolinearlo, non sono né più importanti, ne meno importanti, sono solo diverse. Comunque io ricordo benissimo quando avvenne.
Ogni partita che giochi da bambino è solo una sfida che i tuoi amici e tu fate contro altri, è qualcosa che rafforza un rapporto oltre che ovviamente diverte. Un gioco come un altro solo che coinvolge tante persone con le quali poi ridi, litighi, scherzi e soprattutto cresci. Lo sport dovrebbe educare al rispetto e alla collaborazione. Lo sport di squadra poi accentua questo punto: se insieme lottiamo per lo stesso obiettivo, insieme lo otteniamo e lo sforzo di tutti è il successo di ognuno.
I primi allenatori che ho avuto non facevano mai discorsi del genere, perché per un bambino questa cosa è innata, come tante belle virtù dell’infanzia anche questa si perde con il passare degli anni.
Intervenivano solo quando si creavano degli individualismi importanti oppure qualcuno veniva estraniato dal gruppo perché  ritenuto più debole (come talaltro succede in natura). In quel caso quasi tutti tendevano a far sì che il gruppo trovasse il modo di aiutare il più debole invece di allontanarlo. Mister Valentim era bravissimo in questo, sapeva riconoscere immediatamente chi aveva il carattere da leader e lo invitava ad essere collaborativo immediatamente e a non fare tutto da solo. Più eri bravo e più dovevi essere al servizio della squadra. Non c’era un capitano, ma lo si faceva a turno e chi era il prescelto per la partita, tutta la settimana precedente doveva raccattare i palloni dell’allenamento, raccogliere i birilli che aveva sistemato il Mister, distribuire le casacche e il giorno della gara arrivare per primo e aiutare a disegnare le linee del campo. Non solo, per quella settimana era responsabile dei suoi compagni, quindi doveva essere certo che arrivassero puntuali agli allenamenti e accertarsi della loro salute. Se si ammalavano, era compito suo avvertire il Mister che avrebbe poi trovato il sostituto o chiesto il rinvio della gara. Educare alla responsabilità! A me piaceva esserlo, me lo sentivo dentro e devo dire che nel corso degli anni, anche quando poi ero relegato nelle panchine, avevo sempre rispetto per chi indossava la fascia e per qualsiasi cosa facevo riferimento a lui, anche quando magari il tipo in questione era uno sbarbatello al quale non importava nulla. Rispetto dei ruoli! Niente invidia, ma solamente collaborazione.
C’è poi un fattore importante da tenere in considerazione ed è l’agonismo. Giocare nel cortile sotto casa o giocare in una gara vera sono due mondi completamente separati. Chi, come il sottoscritto, ha iniziato a giocare da piccolo, viene gradualmente avvicinato all’agonismo e man mano che cresce non si rende poi tanto conto dello stacco che è abissale. Questo non vuol dire che l’agonismo sia meno divertente, ma anche in questo caso posso dire che è diverso solo che, come una droga, quando lo provi difficilmente poi vuoi tornare indietro. Si gioca per uno scopo, si gareggia per arrivare a vincere. E il cambiamento lo senti alla prima sconfitta.
Quando giocavamo contro i ragazzi di Amora, che si vincesse o si perdesse alla fine era stata una bella giornata, si tornava a casa stanchi e convinti di essere la squadra più forte del mondo e soprattutto felici, tanto che quante ne hai vinte e quante ne hai perse non le ricordi più perché non contano quanto invece conta divertirsi. La prima sconfitta con il Seixal, invece me la ricordo ancora e non la dimenticherò mai perché lo scopo non è solo il divertimento, ma, ahimè, diventa un altro: vincere e basta!
La partita la giocavamo fuori casa contro CD Montijo una delle trasferte più lunghe per noi piccoletti, 25 kilometri un viaggio oceanico da fare in pullman. A quel tempo non ero ancora tra i pali e stazionavo felice dietro le due punte: il già citato Vitor Martinho, il mio amico e Miguel Ângelo un tipo robusto e sgraziato, ma dalla presenza fisica importante e potente già a quell’età. Al ventitreesimo del primo tempo, lancio senza guardare Vitor come sempre facevo anche nel campetto sotto casa; seguendo uno schema collaudato lui apre sulla sua sinistra dove si trovava puntuale mio fratello Jeorge che appena giunto al vertice sinistro dell’area di rigore crossò perfettamente per la testa di Miguel. Gol. 0-1. Era una domenica pomeriggio di novembre, il 18 per l’esattezza, con vento e pioggia, lo ricordo bene anche perché era il giorno prima del compleanno di mio fratello che avremmo festeggiato agli allenamenti con una torta a sorpresa fatta ovviamente da mamma. Comunque pioveva tanto e quando al trentesimo l’arbitrò fischiò la fine del primo tempo fummo tutti felici di berci il tè caldo. Sinceramente eravamo troppo intirizziti per stare a sentire le ramanzine di Mister Valentim, che aveva visto giusto come sempre. La fascia destra, coperta da Jaime Graça un tipo preciso anche negli interventi, ma che aveva il vizio di giocare sempre troppo a ridosso della linea laterale nella fase difensiva, era spesso sguarnita e così il Mister aveva chiesto a Carmo Pais, centrocampista di sinistra di aiutarlo a coprire. Facevamo tutti segno di si con il capo, ma in realtà volevamo solo tornare a correre per non sentire più freddo. Gli spogliatoi dello stadio Da Libertade non erano certo né moderni né tantomeno riscaldati, ma delle semplici stanze mal dipinte e mal attrezzate con docce prive di acqua calda.
Quindi tornammo in campo e ricominciammo a correre mentre la pioggia ci massacrava. Pais e Graça lasciavano delle praterie incredibili e quando, verso la fine della partita, cominciammo ad accusare la stanchezza, la coppia João Manuel - Praia fece due azioni fotocopia su quella fascia: passaggio in verticale del primo, finta a rientrare e tiro del secondo. Ricardo Freitas non la vide in nessuno dei due casi. Rientrammo negli spogliatoi come pulcini bagnati e ci prendemmo una sgridata peggio di quella dei genitori dopo una marachella. Il Mister non se la prese mai con uno in particolare, ma, come sempre con tutta la squadra. Continuava a ripetere –Non ascoltate mai quello che dico, fate di testa vostra perché vi credete campioni, ma siete solo dei mocciosi impuniti!- E in più non ci mandava a cambiarci e il freddo cominciava a diventare insopportabile. Ci tenne lì per mezz’ora buona che ci sembrarono secoli. Sentivamo freddo e tremavamo in ogni parte del corpo. Non ci fece toccare il pallone per tutta la settimana successiva e anche quella dopo. Facemmo solo tattica. Provavamo e provavamo i movimenti senza palla al ritmo del suo fischietto che ovviamente odiavamo con tutte le nostre forze. Però la ramanzina funzionò Perché poi inanellammo otto vittorie e due pareggi subendo solo quattro reti. Un record.
In quel periodo di sacrificio e in altri che seguirono nelle stagioni successive, ci si aiutava comunque l’un l’altro. Si sentiva lo spirito di appartenenza e si sentiva di rappresentare qualcosa per qualcuno oltre che per noi stessi. Poi però le cose cambiarono. Il calcio professionistico è un'altra cosa, quando perdi l’ingenuità del bambino perdi anche l’identità nel senso che continui per forza di cose a metter in pratica gli insegnamenti, ma fondamentalmente quel gioco di squadra diventa un gioco individuale. Il giocatore professionista gioca solo ed esclusivamente per se stesso. Le parole, le frasi fatte delle interviste, i proclami sui giornali eccetera sono tutte fandonie che si dicono perché in questo mondo ci si comporta così. Tutti vogliono essere protagonisti e nessuno vuole rimanere dietro le quinte. La frase: “Mi sacrifico per il bene della squadra.” È la più grande bugia dei calciatori. Il tuo compagno è un tuo concorrente, sempre. Il mister è come un capo reparto di un’azienda che deve ottenere dei risultati economici e come tale non guarda in faccia a nessuno perché il primo che paga per il fallimento è lui. Tutto questo toglie poesia eppure è così. Me ne accorsi quando andai via dal Vitória Setùbal per passare al Vitória Guimarães. In quelle stagioni lì persi la mia ingenuità, ebbi il mio discanto. Per un portiere però lo ammetto è più facile. Sei comunque e sempre solo e questo aiuta. Te la prendi con i difensori, ma fondamentalmente pensi che ogni errore è colpa tua, tuo il peso della sconfitta, e mai tua la gloria della vittoria. Forse è anche per questo che spesso le squadre formate da grandi campioni falliscono. La coesione che resta sempre alla base di questo sport va creata in un modo o nell’altro, vera o virtuale che sia ed è la cosa che ti permette di vincere. Lo so sono ripetitivo, ma è solo tornando bambini e mettendo da parte i soldi e i contratti pubblicitari e le clausole rescissorie e i premi partita e i bonus per i gol o gli assist e via discorrendo che si possono fare delle grandi imprese. Ritorno sulla Lazio di Maestrelli, ho letto tantissime cose su quella squadra assurda, anche perché l’eco dell’impresa e la fama di Chinaglia arrivarono anche in Portogallo.
Chinaglia era il talento che poteva fare la differenza, ma aveva un carattere impossibile. Tommaso Maestrelli, il mister, aveva saputo conquistarne la fiducia, smussarne un carattere impossibile, rispettarne i silenzi e le tensioni che in passato gli erano costate parecchio con allenatori meno disponibili a capirne il carattere spigoloso.
Chinaglia ripagava la fiducia e la comprensione del tecnico a suon di gol che lo rendevano “sopportabile” anche ai compagni.
Era il luglio del 1973 si partiva per il ritiro e obiettivo era dimenticare la stagione precedente dove la squadra, neo promossa, aveva perso il campionato all’ultima giornata. Come se questo club fosse destinato solo a sfiorare le grandi imprese e a non realizzarle mai. A parte Giorgio Chinaglia, non c’erano nomi altisonanti, ma giocatori acquistati con parsimonia dal presidente Lenzini, dopo il ritorno in serie A. Erano uomini scelti dal Mister Maestrelli, erano i suoi uomini.
Quella Lazio, tuttavia, è anche la storia di uno spogliatoio spaccato, una storia di pugni in allenamento, di porte sfondate a calci, di risse sotto la doccia.
Una storia di pistole, di spari contro i lampioni nel ritiro dell'albergo.
Leggende, secondo alcuni. Realtà secondo altri.
Esagerazioni, ma con un fondo di verità, la versione più probabile e gettonata.
Maestrelli capisce di avere un tesoro fra le mani, un'occasione che capita, se hai fortuna, una volta nella vita ed è bravo a capire di doverla difendere soprattutto dagli eccessi che, ben convogliati, ne determinano le caratteristiche migliori.
Il tecnico arriva a far allenare la "rosa" in due gruppi per evitare che i litigi trascendano.
Uno spogliatoio fa capo a Chinaglia e Wilson, amici dai tempi dell'Internapoli una società minore di Napoli, l'altro a Martini e Re Cecconi ex commilitoni.
Si parla anche di politica.
"E' una squadra di fascisti" - si dice in giro.
Gigi Martini, allora, dichiara pubblicamente di votare MSI, quello che resta del partito Fascista Italiano nel dopoguerra.
Anche Re Cecconi e Petrelli hanno fama di simpatizzanti dell'estrema destra, lo stesso Chinaglia non fa mistero della sua simpatia per Giorgio Almirante capo del partito MSI.
Dietro di loro anche gli altri si incolonnano, i saluti romani spesso spiccano nelle foto della Curva Nord, secondo i ben informati molti dei calciatori della Lazio giocano con le catenine ornate di croce celtica.
Sono palesi esagerazioni, la stampa italiana di sinistra, non sempre equidistante, tende a strumentalizzare certi comportamenti per colorare di una fede politica la squadra romana.
Eppure la Lazio è "collettivista" al massimo, i premi partita vengono rigorosamente divisi per l'intera "rosa", non solo fra chi ha giocato e chi è andato in panchina, come accade in molte altre squadre.
Raccontano anche che i calciatori si tassino per rendere più corposa la busta paga della lavandaia, del magazziniere, del guardiano di Tor di Quinto, il campo di allenamento bianco celeste.
Leggende ? Può essere, ma c'è chi lo ha scritto e non c'è chi lo abbia smentito.
Ma la Lazio ha altre stranezze.
Tutti girano armati, spesso nei lunghi ritiri in un albergo dell'estrema periferia romana ingannano il tempo col tiro a segno, ma si racconta anche di qualche scherzo pericoloso.
Una sera, prima di un derby decisivo, gli ultras giallorossi decidono di "far caciara" che è un termine dialettale romano per indicare il chiasso, sotto le finestre dell'Hotel che ospita la Lazio, prima che il Direttore chiami i rinforzi, qualcuno spara ai lampioni del viale d'accesso.
Un'altra leggenda ? Può essere.
Fra le certezze c'è il fatto che Martini e Re Cecconi prendono il brevetto di paracadutismo, la società lascia fare nonostante sia un passatempo discutibile per un calciatore professionista. Discutibile, poiché rischioso.
Un'altra caratteristica unica di quella squadra irripetibile sono le partitelle di allenamento, nelle quali nessuno vuol perdere e che il povero Maestrelli vive con angoscia.
Ogni tackle può portare all'infortunio, perché si gioca undici contro undici e la gamba non la toglie mai nessuno.
"Peggio che in partita" perché "da 'quelli' non si può perdere.
Mai!
Anni dopo Borgo, leggendario capitano della Pistoiese e Primavera della Lazio ai tempi dello scudetto, racconterà di aver spesso avuto paura durante quelle sfide interminabili.
La spaccatura fra i due clan è infatti insanabile, Martini in particolare non sopporta gli atteggiamenti dispotici di Chinaglia ed il venerdì la partitella è spesso l'occasione per la resa dei conti.
Qualcuno indossa i parastinchi in quell'occasione, anche se ne fa a meno nelle partite di campionato.
La Lazio è tutto questo, pistole, pugni, bottiglie rotte, calcioni in allenamento.
La domenica però, spesso, è puro spettacolo.
Quelle tensioni, quella rabbia si fondono allora in agonismo, la squadra diventa monolitica, le scazzottate, le bottiglie rotte, brandite minacciosamente per farsi le proprie ragioni, sono lasciate fuori dal campo e la domenica giocano tutti per lo stesso scopo : vincere.
E' un'orchestra che ormai conosce alla perfezione lo spartito.
Alla terza giornata, la prima svolta.
A Torino, ospiti della Juventus, i biancazzurri passano in vantaggio con Chinaglia e sembrano in grado di vincere in bellezza la terza partita consecutiva e quindi tentare la prima fuga.
Poi, nella ripresa, il crollo.
La Juve segna tre volte e c'è chi parla, dopo, negli spogliatoi, di gente sbattuta contro gli armadietti da un Chinaglia letteralmente furibondo.
E' un momento difficile; la squadra biancazzurra inanella tre pareggi di fila, due all'Olimpico.
La vetta sembra allontanarsi, ma, mentre il campionato snoda le sue spire, la Lazio trova coraggio e continuità.
Maestrelli amministra le tensioni; la squadra supera i suoi eccessi se non con la disciplina, con la convinzione, smisurata, nei suoi mezzi.
Frustalupi detta i ritmi e spesso li rallenta per evitare che la frenesia porti la squadra a scoprirsi troppo e pagare il suo compiacimento nel bello, Re Cecconi e Nanni garantiscono corsa e soluzioni balistiche quando l'attacco viene imbavagliato.
Accade col Milan, quando Re Cecconi coglie il gol della vittoria all'ultimo assalto.
E' l'undicesima giornata, la Lazio si conferma capolista, una posizione raggiunta in coabitazione quattordici giorni prima, e in solitario la settimana precedente.
Non lascerà più lo scettro del primato, fino alla fine.
In quelle prime giornate, tuttavia si compie il destino di quella squadra grande e strampalata.
Al secondo turno di Coppa UEFA, i biancazzurri sono opposti ad una squadra inglese di secondo piano, l'Ipswich Town.
La prima gara si gioca in Inghilterra, e si conclude con un disastro.
In meno di un'ora una Lazio irriconoscibile, che ha snaturato il suo gioco con l'utilizzo del terzino Petrelli al posto dell'ala Manservisi o del fantasista D'Amico, incassa quattro reti a zero, tutte segnate dall'interno Whymark.
Il grave, tuttavia, accade nella gara di ritorno, caricata di significati anche extracalcistici.
In un ambiente surriscaldato la Lazio mette in campo una rabbia inutile, quanto poco opportuna, visto il risultato dell'andata.
Dopo meno di mezz'ora, i biancazzurri sono sul 2-0, e l'entusiasmo per l'incredibile possibilità di una rimonta incendia gli animi, la partita diventa una battaglia senza esclusione di colpi.
Quando l'arbitro olandese Van der Kroft concede un rigore agli inglesi, si scatena il finimondo.
Sulle tribune parte una caccia all'uomo e la bandiera inglese, ospitata su uno dei pennoni dell'Olimpico viene data alle fiamme.
La partita continua.
Chinaglia, letteralmente scatenato segna altre due volte, ma la gara si chiude su un inutile 4-2 per la Lazio.
L'UEFA non avrà la mano tenera con la Lazio: squalifica per tre anni, poi ridotta ad un anno solo, da tutte le manifestazioni europee.
In campionato, invece, le cose vanno per il meglio.
Con D'Amico titolare inamovibile, la Lazio diventa Campione d'inverno con tre punti sulla Juventus, la Fiorentina ed il Napoli, nonostante perda Re Cecconi per un infortunio che lo terrà lontano a lungo dai campi di calcio.
L'inizio del girone di ritorno è però molto tribolato.
A Marassi, lo stadio di Genova, contro la Sampdoria, un gol di Maraschi ed una prestazione molto sofferta condannano la Lazio alla sconfitta, quanto mai inopportuna in quanto arriva a soli sette giorni dalla sfida scudetto contro la Juventus che si è avvicinata a due soli punti.
All'Olimpico, quel 17 febbraio 1974, la Lazio sfodera una delle sue partite più belle.
In meno di mezz'ora la Juventus è alle corde, Garlaschelli e Chinaglia portano la Lazio sul 2-0. Sembra fatta, ma il signor Panzino di Catanzaro, arbitro della partita, sale al proscenio.
Nei primi dieci minuti della ripresa concede due rigori ai bianconeri, sul primo, calciato da Cuccureddu, Felice Pulici compie un miracolo, ma sul secondo Anastasi accorcia le distanze.
La Juve torna in partita con oltre mezz'ora da giocare.
Dieci minuti dopo, tuttavia, l'arbitro concede un rigore anche alla Lazio che Chinaglia, dopo aver conquistato con mestiere, trasforma con rabbia.
Sarà la vittoria decisiva, tipica di una squadra senza mezze misure.
Altra pietra miliare il derby di ritorno: 2-1 sofferto con la Roma in vantaggio e il punteggio ribaltato in cinque ruggenti minuti con una magia di D'Amico ed un rigore di Chinaglia che, quel giorno, inventa la sua "griffe": l'indice della mano destra mostrato alla Curva Sud, la curva dei tifosi romanisti, in un gesto di sfida.
La domenica dopo, tre reti di un Chinaglia cosmico al San Paolo rintuzzano l'ultimo assalto del Napoli e tengono a distanza di sicurezza anche la Juventus che non molla.
Da qualche domenica è tornato Re Cecconi, ma la squadra appare stanca, soprattutto c'è chi pensa che quella gabbia di matti stia per cedere dal punto di vista dei nervi.
Emblematica la venticinquesima giornata.
La Lazio riceve il Verona all'Olimpico e va subito in vantaggio. 
Sembra fatta, ma accade l'incredibile.
Zigoni, che già l'anno prima ha segnato un potenziale gol guastafeste "scusandosi" con l'Olimpico, pareggia e mentre sta per finire il primo tempo Oddi, il figlio di Roma Oddi, il "lazziale" Oddi, mette a segno il più classico degli autogol.
Sull'Olimpico cade il gelo.
Chinaglia se la prende con tutti, con Nanni rasenta lo scontro fisico nel tunnel, e molti già prevedono guai nel chiuso dello spogliatoio.
Ma sulla porta trovano Maestrelli che li rimanda tutti in campo…
La Lazio, in pratica non fa l'intervallo.
Si dispone sul campo, ogni calciatore al suo posto, e aspetta.
Un colpo di genio!
  Questo voglio intendere quando un Mister è il vero leader, quando dirige più che comandare, quando conosce uno per uno i suoi giocatori e sa come rendere tutti parte di un qualcosa che solo muovendosi insieme può funzionare.
Il pubblico, dapprima è sorpreso, poi comincia ad incitare la squadra.
Chinaglia sfoga la sua rabbia prendendo a calci il pallone anziché i compagni.
Quando il Verona, sorpreso, rientra in campo l'Olimpico è una bolgia.
I veneti sono letteralmente travolti, in mezz'ora scarsa il punteggio è ribaltato : 4-2 per la Lazio. 
La giornata realmente decisiva è, tuttavia, la ventottesima.
Il giorno dopo il venticinquesimo anniversario di Superga, il disastro aereo che spazzò via la più forte squadra del mondo nel 1949 quella nota come il Grande Torino, la Lazio sfida il Toro che la batte ancora, come aveva fatto all'andata.
Paolo Pulici, scatenato, segna una splendida doppietta nel primo tempo, la Lazio lotta come può, ma è sotto di un gol a venti minuti dalla fine.
Può essere la svolta.
All'Olimpico, infatti, la Juve, avversaria irriducibile, ha raggiunto il pareggio ad inizio ripresa ed attacca a pieno organico.
Sembra di rivedere un film già visto, quello dell'ultima giornata dell'anno precedente con la Juve che vince all'Olimpico e si prende lo scudetto.
Stavolta, tuttavia, il finale è diverso.
A quindici minuti dalla fine, Pierino Prati, nuovo "Re di Roma", batte Dino Zoff ed inchioda la Juve alla sconfitta.
E' la svolta definitiva.
La settimana dopo la Lazio ospita all'Olimpico il Foggia, in piena lotta per non retrocedere.
E' una partita dura, cattiva, violenta anche.
Il giorno, è il 12 maggio 1974, e in Italia si vota per il Referendum sul divorzio.
Il risultato, all'Olimpico, non si sblocca.
Al quarto d'ora della ripresa Garlaschelli, finalmente, conquista un discutibile rigore.
Per i foggiani si è tuffato, sono letteralmente inviperiti, volano spintoni e parole grosse.
Quando la voce di Enrico Ameri, telecronista della radio italiana che commentava le partite in diretta, interrompe la cronaca di un collega di "Tutto il Calcio minuto per minuto" per dare l'annuncio, l'Olimpico è un acquario.
Chinaglia sul dischetto prende la rincorsa, non calcia benissimo, ma il portiere foggiano, Trentini si chiama, è battuto lo stesso.
Ancora sofferenza fino alla fine: Garlaschelli, picchiato dai foggiani in cerca di vendetta, reagisce e l'arbitro lo espelle, Martini si è fratturato la clavicola.
La Lazio in dieci resiste, qualche brivido poi è scudetto.
Così una squadra costituita da paracadutisti e da pistoleri, un gruppo così diviso da costringere l'allenatore a far spogliare i due clan in due spogliatoi diversi per evitare il "contatto", quella squadra che fra gli altri anche Pasolini il grande poeta e regista italiano definirà senza mezzi termini "una banda di fascisti", vince il campionato.
Mai una squadra ha avuto contro l'intera opinione pubblica come la Lazio di Chinaglia, Martini e Re Cecconi.
Non ricordo un simile astio, altrettanta prevenzione, nei confronti di undici atleti come contro i biancazzurri verso la conquista del tricolore.
Parlo di squadra, non di società, perché la Lazio del primo scudetto era principalmente una squadra di uomini, di volti, di persone fisiche, non uno stemma, non un sodalizio.
Erano quegli undici, quella "sporca dozzina".
La Lazio del primo scudetto erano Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Lecconi, Chinaglia, Frustalupi e D'Amico.
Ed era soprattutto e sopra tutti, Tommaso Maestrelli, un allenatore cui la sfortuna ha negato molto.
Questa storia mi affascina molto tuttora, come mi affascinò nella mia infanzia raccontata da mio padre. C’era allora un solo programma sportivo nazionale che parlava del calcio estero, non più di dieci minuti in bianco e nero la domenica sera prima di cena. Il campionato Italiano, la Serie A, con le sue squadre leggendarie: Inter, Juventus, Milan e dove una outsider poteva batterle con il gioco. Era il sogno di tutti poter arrivare un giorno lì. E quella squadra che aveva lo stesso simbolo del Benfica, di cui non esistono immagini ufficiali della sua impresa, perché il 12 maggio 1974 i giornalisti italiani erano in sciopero, conquistò il mio cuore di bambino: un giorno sia io che mio fratello avremmo giocato lì.